domenica 20 giugno 2010

Il Grande Freddo

Piove. Fa freddo. Il che, per un 20 giugno romano, non è che sia esattamente normale. Ma sembra - anche metereologicamente - che questo sia l'anno del Grande Freddo.
Alex arriva a quarant'anni, guarda indietro alla sua vita e la trova vuota, sprecata. Vede quello che è, e non gli piace. Alex sta ristrutturando una casa regalatagli dal suo amico dei tempi migliori. Alex è brillante, lo sa, ma quello che combina non va mai bene, non riesce a fare quello che vorrebbe. Non riesce ad essere quello che vorrebbe. Peggio ancora, non sa cosa vorrebbe essere. Alex è di fronte ad uno specchio, sorride, fa un respiro profondo. Prende una lametta. Mentre comincia ad incidersi i polsi sente a malapena dolore. Anzi, si gode quel poco che sente, sa che è una delle ultime cose che proverà. Si stende nella vasca tranquillo, godendosi l'acqua bollente come se fosse l'ultimo piacere della sua vita. Sente il sangue che gli bagna le braccia e, pian piano, mentre la vita lo abbandona, si rilassa. Dopo poco Alex è un cadavere e non più una persona. Ha fatto l'ultima delle immense stupidaggini della sua vita. Avrà un funerale fantastico. Diavolo, è il funerale che tutti - me compreso - vorrebbero avere. Con gli amici che sorridono mentre le note di "You can't always get what you want" si diffondono nella chiesa. Ha un solo difetto quel funerale: Alex non è lì per vederlo.
E' alla fine il problema che frega tutti i suicidi: quello che spinge a tagliarsi le vene, buttarsi da un ponte, spararsi in bocca o ingoiare un sacco di pillole non è solo la voglia di farla finita, in tutte le sue sfaccettature. C'entra anche la volontà di fare il proprio funerale, di calare la matta al momento meno opportuno quando i rapporti con tutti quelli a cui si vuole bene stanno andando implacabilmente a puttane, risolvere la partita gettando il tabellone per aria, non giocare più, sapendo benissimo che quello che rimane alla fine è solo un mucchio di ricordi, per la maggior parte belli.
Non dovrò più lottare - pensa il suicida - non dovrò più far fatica, non dovrò più dar retta alle stronzate e di me, dopo poco, non resteranno altro che bei ricordi.
Nessuno pensa del morto che era uno stronzo, anche se è vero.
E' una fregatura, e nemmeno piccola. Prima di tutto perché se uno è uno stronzo rimane sempre uno stronzo, qualunque cosa faccia per nasconderlo, fosse anche ammazzarsi. E poi perché nonostante tutto il peggior comportamento lo tiene, come quasi sempre accade, verso se stesso: si ammazza, quindi tutta quella bella scena che si è immaginato, fosse pure il più bel funerale dell'universo, non è per lui. Perché lui non è lì per vederla. E quindi diventa inutile, anzi, dannosa, visto il dolore che tutti proveranno per il suicida.
Mi dispiace Alex, eri uno stronzo. Hanno fatto bene a tagliare tutte le tue scene nel film.
Però...
Quando sento la sua storia, raccontata da quelli che l'hanno amato nei suoi momenti migliori, rendendosi conto di che persona eccezionale era, "brillante studente di fisica che abbandona gli studi per imbarcarsi in una serie apparentemente senza senso di lavori" - si, mi ricorda qualcuno - e capisco le sue difficoltà di comunicazione, l'impotenza che doveva sentire nel non riuscire a trasmettere agli altri quell'ansia esistenziale che lo spingeva a compiere cose senza senso, a dire cose contraddittorie, a sembrare tutto e il contrario di tutto da un momento all'altro, la difficoltà nel portare a termine le cose... Dio se lo capisco. Io ed Alex sembriamo due gocce d'acqua - e non lo dico perché era interpretato da Kevin Costner da giovane, io sono molto più brutto - e a volte questo mi preoccupa.
Ci sono dei momenti, brutti momenti, in cui il Grande Freddo cala su di me, mi pervade, e io mi sento intimamente vicino ad Alex, di fronte allo stesso specchio, gli stessi pensieri, le stesse paure, le stesse idee che riguardano una fine semplice e poco impegnativa, la stessa voglia di buttare all'aria il tavolo, carrarmatini e dadi compresi, per concludere la partita senza vincitori né vinti. Ci sono momenti in cui l'impossibilità di comunicare mi colpisce come una stilettata al cuore e la visione del futuro mi terrorizza.
So perché Alex ha fatto quello che ha fatto, non ha misteri per me.
E questo non mi impedisce - anzi, mi rende la cosa ancora più facile - di considerarlo uno grandissimo stronzo. L'ho detto anche prima, quello che ha fatto è stato un gesto infame, una crudeltà verso tutti quelli che gli volevano bene. E una stupidaggine verso se stesso. Succede che le cose vadano male, Alex. Siamo abituati ad attraversare l'inferno, e alla fine (magari un po' bruciacchiati e acciaccati, certo) se ne esce lo stesso. Sapere quanto fa male e averne una paura fottuta non può, non deve essere un buon motivo per farla finita. Essere morti è peggio. Essere morti è peggio di qualunque altra cosa.
Quindi, fioretto di questo strano inizio d'estate, cerchiamo di non essere degli idioti, per di più stronzi. Ricordarselo ogni tanto è sempre utile.

giovedì 17 settembre 2009

Ce l'ho.


Ce l'ho. Ma sono un po' troppo stanco per scriverne, ed ho un cospicuo manuale da leggere. Ne scriverò in seguito, con calma.
Ce l'ho. Ed è una figata...

lunedì 7 settembre 2009

Piccolo aggiornamento sulla procedura d'acquisto

Ok, la cosa sta andando avanti. Se non regolarmente almeno un passo dopo l'altro, cavolo.
Ho pagato l'attrezzo integralmente e firmato tutte le carte. Tecnicamente la macchina è mia. E quindi dovrei aver risolto. Senonché questi... Concessionari (esiste insulto peggiore?) se la prendono un po' comoda con la consegna, accampando vari problemi logistici (che ovviamente prima non esistevano).
Risultato: me la consegnano dal 16 settembre in poi (e si potrebbe andare a finire anche al 21). Alla faccia della pronta consegna.
Non sto facendo altro che ripetermi che devo essere ottimista, che non devo pensare ai possibili disastri.
Ma è dura darmi ascolto...
Mantengo le dita incrociate. Anche quelle dei piedi.

mercoledì 2 settembre 2009

Big Wednesday

Il risveglio fondamentalmente è normale. Sveglio alle 0600, alzato dal letto alle 0630, fuori di casa alle 0715. Come ogni giorno da svariati anni a questa parte, non è cambiato niente, perché sarebbe dovuta essere una giornata particolare?
Bé, qualche motivo c’era già in partenza. Dopo svariati anni e 185000 chilometri di onorato servizio la mia macchina sta cominciando a dare evidenti segni di imminente collasso. Un paio di luci sono kappaò - ma se non cambio le lampadine dubito che si accendano per puro miracolo - il motore è un po’ sfiatato, il parasole lato guidatore non ne vuole sapere di stare su, le sospensioni andrebbero ricostruite. Per di più domenica, mentre stavo andando tranquillamente a fare un po’ di spesa (fondamentalmente la sabbia per il gatto, quel felino caca come un equino) con un amorevole “scataclonc!” il finestrino lato guidatore è venuto giù. Con l’aiuto di un po’ di duct tape adesso sta su, ma non posso aprirlo ed è veramente una rottura.
Segnali, segnali importanti. E’ giunta l’ora di cambiarla. Il finestrino ha dato il colpo di grazia.
Un paio di piccoli problemi si pongono: non ho soldi da spendere, quindi o mi tocca una megarata di quelle spezzagambe a lunga durata o chiedo i soldi a mia madre. Ci penso. Soffro. Elucubro. Mi decido.
Mamma?
Fortunatamente ce li ha ed è (ragionevolmente) felice di potermeli dare. Alla fine la predica non è nemmeno troppo pesante - anche se io la prendo malissimo, deprimendomi all’inverosimile - e almeno questo punto è - quasi - risolto.
Lunedì vado in concessionaria e prendo gli accordi: si contratta il prezzo, il mio vecchio catorcio viene valutato poco più che un pezzo di ferro (me l’aspettavo, non potevo pretendere di più) e rimaniamo d’accordo che l’indomani mattina ci saremmo sentiti per bloccare la macchina. Ce n’era solo una in pronta consegna e bisognava fare in fretta per approfittare di uno sconto concesso dalla casa. Tutto bene, quindi...
Col cavolo. Il giorno dopo il telefono è muto, non squilla. Chiamo la concessionaria per avere notizie ma “il venditore oggi non c’è, domani torna”. Ok, pazienza, le cose non possono andare tutte male.
Stamattina un altro segnale. Accendo la macchina e parte la spia dell’olio. Cavolo. Ci mancava solo questo. Potrebbe essere il sensore - è già successo un paio di volte - o potrebbe essere che veramente c’è una perdita. Quella spia mi mette un po’ di fretta, non mi va di aspettare un paio di mesi con un catorcio che è diventato quantomeno rischioso da guidare.
Mando un SMS a mia sorella, che accompagna mia madre in banca, con il mio IBAN.
Dopo un po’ squilla il cellulare.
Silvio? Sono in banca, stiamo facendo il bonifico, ma mancano dei numeri all’IBAN...
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Nel cambio di telefono qualche mese fa l’IBAN, che porto come appunto sul telefonino, si è troncato. E io ce l’ho a casa.
Pensa, Silvio, Pensa. Elaboro anche una fuga in banca per chiedere pietà, ma poi mi si accende una lampadina: Maura ha il mio IBAN! La chiamo e - Santa Maura! - dopo pochi minuti lei me lo manda per posta. Chiamo mia sorella e, almeno, il bonifico parte. Speriamo arrivi in fretta.
Dal lavoro chiamo la concessionaria, il venditore ancora non c’è, forse nel pomeriggio. Una lampadina mi si accende e mi comincio a preoccupare. Chiamo la sede centrale.
Ma...
Guarda, è malato, ma a dire il vero non so proprio se torna, so che se ne sta andando. Anzi, forse si è proprio licenziato.
Ma non vi è arrivata la comunicazione per bloccare la macchina?
No, qui non ne sappiamo niente.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Anzi, stasera dovrebbe venire una persona che era interessata, se ti sbrighi la blocchi e la prendi tu, altrimenti ti tocca aspettare...
Ok, non c’è problema, arrivo.
Avviso tutti, prendo un permesso e scappo di sotto. La sede centrale è dall’altra parte della città, se sono sfortunato è più di un’ora di macchina, mi fermerò sul raccordo per fare benzina e mettere un paio di chili d’olio.
Accendo. Parto.
Scotoclonc sclanc scalc, fa la macchina mentre si muove. Conosco questo rumore.
Cazzo.
Mi fermo e parcheggio. Ho forato la gomma anteriore destra. La stronza non ne vuole proprio sapere di farsi vendere. Cazzo.
Ok, calma e sangue freddo. Cric e ruotino sotto il sole cocente dell’una, 35 all’ombra, in quattro secondi netti sono piegato a terra che sbuffo e grondo sudore, mi sporco fino ai gomiti, bestemmio, i bulloni sono pure duri, ma metto il ruotino e mi incammino. Piano, è meglio non rischiare, ci manca solo che mi schianti.
Arrivo alla stazione di servizio all’autogrill, metto il paio di chili d’olio, faccio benzina e - miracolo! - vedo che nell’angolo c’è un gommista. Una mezz’ora e dieci euro dopo sono di nuovo sul raccordo, la spia non si spegne, spero proprio che non ci sia qualche perdita, ci mancherebbe, ma voglio far finta di niente. Arrivo alla concessionaria, fetente, puzzolente, imbrattato di grasso su tutti gli avambracci, ma pronto a comprare la macchina.
I venditori d’auto sono... Bé, affidabili come venditori d’auto. Un pelo al di sopra degli agenti immobiliari, ma sempre al di sotto dei lombrichi, molto al di sotto. Sia come sia concludiamo l’affare, comprensivo della valutazione da “pezzo di ferro” del mio catorcio. Arriva l’ultima botta.
Senti, ci sarebbero problemi per te se ti immatricolassimo la macchina ad ottobre?
Ahem... Ottobre? Pronta consegna? Pare, ma solo pare, che le macchine in pronta consegna siano diventate improvvisamente due - ma guarda un po’! - e quella del colore che preferivo (canna di fucile) non può essere consegnata se non ai primi di ottobre. Altrimenti la posso avere anche tra una decina di giorni. Ma grigio argento. Ci penso qualche secondo, più che altro per fare scena, non posso dire subito di si. Non mi fa impazzire il grigio argento, ma posso conviverci. Almeno lo sporco si vede di meno e si scalda un po’ meno al sole. A quel punto mi hanno preso per stanchezza, la prenderei anche viola a pois. Accetto. Firmo. Se il bonifico non dà problemi - e voglio ben sperarlo! - martedì prossimo gli porto un cospicuo assegno e il sabato dopo, o alla peggio il lunedì successivo, dovrei poter ritirare la macchina.
Torno a casa piano, la spia dell’olio è ancora accesa. Per un attimo penso di fermarmi da un meccanico per fargli dare un’occhiata, ma poi non mi sento in grado. Non oggi, forse domani. Arrivo a casa, faccio una lunga doccia. Sono stanco.
Ma, forse, adesso ce l’ho fatta.

sabato 29 agosto 2009

Vent'anni dopo

Ecco, è strano mettersi a parlare di quel periodo, come se non fossero passati vent’anni, cercando di ricordare, di capire cosa pensavamo allora, quand’eravamo semplicemente dei banali diciottenni.
Artifici letterari, a ben guardare, nel disagio che ci portavamo dietro. Un disagio che era a sua volta il risultato di un artificio letterario.
Beninteso, eravamo ribelli. Tutti i ventenni sono ribelli, tranne misteriosamente quelli di oggi, e noi non facevamo eccezione. Però a dire il vero eravamo un po’ scarsi di motivi di ribellione. Non che non ne avessimo (c’erano Craxi, Andreotti e Forlani, tanto per dirne una), ma alla fine non facevamo una vita troppo schifosa, avevamo delle prospettive davanti e ancora nessuno sapeva cosa diavolo fosse un call center.
Il problema è che ci eravamo nutriti di una dieta continua di guerra del Vietnam, John Lennon, Anarchy in U.K. e roba del genere, roba forte che faceva veramente sballare il cervello. Non potevamo far a meno di atteggiarci come una via di mezzo tra punk londinesi del ’77 e fricchettoni di Woodstock. Sapevamo benissimo che le due categorie, in fondo, si odiavano profondamente. Avevamo una cultura enciclopedica su quei fatti, giungendo a ricordare i cambi di batterista con precisione maggiore di quanto un ragazzino di adesso possa citare le formazioni della Roma 2001-2002, ma nonostante questo coltivavamo una visione eroica ed idealistica della continuità spirituale tra le ribellioni che ci portava a mettere sullo stesso palco Gene Vincent, Syd Barrett e Johnny Rotten senza problemi.
A ripensarci sarebbe stata una scena divertente, si sarebbero letteralmente scannati come lupi affamati messi nello stesso recinto.
Però avevamo ragione, era la stessa cosa.
Noi, mancando in fondo un serio motivo di ribellione contro cui scagliarsi come un treno contro un binario morto, ci buttammo contro i Duran Duran. E gli Spandau Ballet. E tutta quella merda che non faceva altro che passare in continuazione in televisione e nelle radio commerciali, riempiendo timpani e cervelli dei nostri poveri coetanei di stupidaggini di basso profilo. Niente giubottini colorati, pelle nera e stivali, atteggiamento da rocker. E guai a parlare di discoteche o a giudicare positivamente un pezzo di Phil Collins, si rischiava la radiazione dall’albo.
Avevamo ragione anche in questo, era e rimane cacca secca di cammello. Anche se adesso va di moda ricordarla con nostalgia e parlarne bene. Merda secca, altro che musica.
Molti imbracciarono le chitarre, i bassi e si armarono di bacchette e sulla base di questi presupposti iniziarono a fare musica. E che musica... Con degli ispiratori del genere non poteva che venirne fuori roba esplosiva, originale, innovativa, eccitante, termonucleare. A Brindisi, una cittadina di centomila abitanti scarsi, c’erano almeno otto gruppi diversi che suonavano, facevano concerti, componevano canzoni, si ubriacavano assieme, parlavano - molto - e agivano - molto, ma non abbastanza - per portare fuori questa loro arte nascosta, fermamente convinti di produrre ottima musica, un’ottima filosofia di vita, vivendo gli anni migliori della propria vita come un’unica, corale, appassionante e intrigante opera d’arte.
Mi duole ripetermi, ma avevamo ragione anche in questo. Nello stesso momento, in America, succedeva esattamente la stessa cosa. Dalle piccole città si alzava un suono di chitarre distorte che con cupa allegria si dedicava a sfanculare con rabbia l’establishment musicale, sociale, economico che era stato costruito con tanto impegno dalle generazioni precedenti.
Cazzo, loro però hanno avuto successo.
Ora tutti sanno chi sono i REM e i Nirvana, ma Blackboard Jungle e Birdy Hop li conosciamo in pochi, eppure facevano le stesse cose nello stesso periodo. Anche se, a dirla tutta, la differenza alla fine la fece venire da Seattle, fare duecento concerti all’anno in posti dove un produttore decente prendeva la macchina e in mezz’ora era lì. Molto, molto più facile che venire da Brindisi, fare trenta concerti all’anno in posti dove ti ritrovavi di fronte sempre le stesse persone, nessun produttore e dove a mala pena ti pagavano se non bevevi troppe birre.
Però la musica c’era, cazzo se c’era.
Sono passati vent’anni, la maggior parte di noi non ha ancora messo la testa a posto, a testimonianza di quanto fossimo... No, mi correggo, siamo convinti di quello che pensavamo all’epoca. La musica è ancora grandiosa, riascoltandola non è invecchiata assolutamente e non era per niente roba da dilettanti allo sbaraglio.
Ma soprattutto rimane quell’opera d’arte che è stata la nostra vita in quel periodo, immensa, torreggiante e splendida come una cattedrale gotica, il miglior capolavoro che potessimo produrre.
Avevamo ragione, l’ho detto, e anche se nessuno lo sa, siamo stati capaci di mettere assieme degli anni magnifici.
A proposito, non abbiamo ancora finito.

domenica 8 febbraio 2009

Testamento biologico?

Pare proprio che sia diventata una necessità. Esprimere chiaramente la propria volontà, non limitarsi ad accennare casualmente alle proprie convinzioni, lasciando liberamente ad "altri" - chiunque essi siano - il compito ingrato di trasformare questi accenni monchi e scevri di chiarezza in azioni reali.
In fondo non è un male. Che noi italiani, soprattutto noi che ci pecchiamo di essere intellettuali (intellighénzia? In questo paese significa riuscire a parlare di qualcosa che non sia l'ultima partita di calcio o l'ultima lite al Grande Fratello...), veniamo costretti ad esprimere una posizione chiara ed inequivocabile, senza quelle ampie fasce di ambiguità che sembrano essere una caratteristica di qualunque affermazione fatta in questa lingua.
Allora, si parlava di testamento biologico. Al momento in Italia questa cosa non ha alcun valore legale. Di più, visto l'orientamento bigotto e simil-populista della stragrande maggioranza del popolo italiano se mai si arriverà ad una legislazione è molto probabile che non ci sia mai un riconoscimento pubblico di quanto sto per scrivere. Probabilmente ritorneremo al medioevo giuridico dei dettami della Chiesa, ma, tant'è, io ci provo.
Primo punto: se schiatto, schiatto. Cuore fermo, cervello morto, non c'è discussione. Se ci sarà in quel momento qualcosa di buono da recuperare dal mio corpo allora che sia recuperato; quello che rimane, se possibile, venga cremato. Non chiedo a nessuno di conservare le ceneri: se si trova un bel posto, magari sul mare (non ad Ostia...), spargetele al vento. Non è una romanticheria inutile: non credo nella venerazione di un corpo in decomposizione e sarebbe bello rientrare al più presto nel ciclo della vita. Vorrei evitare i sacramenti cristiani, al momento non riconosco alla Chiesa cattolica alcun valore morale, ma se mia madre fosse ancora viva quando muoio so che le farebbe piacere. Per lei, quindi, ma non per me, potrei fare un'eccezione e ammettere che un prete faccia alcuni gesti per renderla felice. Se mia madre non ci fosse più quando verrà il momento... Bé, in quel caso è lineare: niente estrema unzione e funerale civile. Non voglio preti vicino al mio cadavere.
Morte cerebrale? Vedi sopra. Se il mio cervello non funziona più allora io non ci sono più. Quindi vedi sopra. Al momento la legge è d'accordo con me, ma visto come stanno le cose non credo che sia una situazione destinata a durare. Quindi, per evitare rischi, ribadisco: se per caso mi ritrovassi in uno stato di morte cerebrale e la mia volontà contasse ancora qualcosa togliete tutto quello che possa essere utile agli altri e cremate i pezzi di carne che avanzano. La morte cerebrale è morte a tutti gli effetti.
Stato vegetativo... E qui le cose si fanno complicate. Il corpo e vivo e funzione, ma il cervello - sia pur mantenendo quelle funzioni necessarie a tenere in vita il corpo - è andato. La coscienza non c'è più. O almeno credo che sia così, visto che nessuno è mai tornato da quella condizione per raccontarci cosa c'è. Non ho prove sceintifiche per affermare quanto sto scrivendo, ma sono profondamente convinto - e mi dicono che ad analizzare queste cose sono bravino - che non rimanga assolutamente niente di sé in quella condizione. Di conseguenza chiedo, imploro, supplico che se mai venissi a trovarmi in quella disgraziata condizione si faccia quanto possibile per accelerare la fine delle funzioni vitali del mio corpo, inclusa l'eventuale interruzione di alimentazione e idratazione. Un linguaggio freddo e crudele, ma - almeno spero - chiaro ed inequivocabile. Fatemi la pelle, non voglio rimanere come un corpo che sopravvive a sé stesso.
Coma... E cioé incoscienza più o meno profonda. La letteratura scientifica dice che dal coma, anche dal più profondo, è possibile tornare. Spesso in questi casi si hanno danni cerebrali, la coscienza, che io continuo ad identificare cartesianamente con l'individuo, può riemergere intatta come più o meno danneggiata. Diamo il beneficio del dubbio: provate a salvarmi la pelle. Vedete cosa ne esce fuori, se possibile, ma non accetto di essere mantenuto all'infinito in uno stato di coma se non c'è possibilità di recuperare almeno qualche funzionalità. Il parere dei medici ha un'importanza fondamentale in questo caso: se dicono che ci sono possibilità - al momento o in un futuro prossimo in cui la tecnolologia possa compiere qualche sviluppo che al mopmento pare ai limiti del miracoloso - che possa tornare, sia pure menomato, allora che si tenti. Ma quando le speranze si siano estinte non costringetemi alla tortura di continuare semplicemente, di essere un corpo vuoto da far sopravvivere indefinitamente. Se starò sognando in quel momento sappiate che la mia volontà è che quel sogno si spenga, perché possa diventare un ricordo nello spirito di chi ci ama. Non intendo far soffrire inutilmente, più del necessario, chi mi vuole bene.
Se poi mi debba ritrovare in una situazione in cui sono cosciente e condannato, magari sofferente... Bé, quella è una situazione diversa. Avrò, almeno spero, la possibilità di dire la mia, di fare valutazioni. E, questa è una promessa, sarò molto chiaro nell'esprimere ciò che voglio.

lunedì 29 dicembre 2008

Social network, 2008

Notte. Notte fonda, anzi, visto che è passata mezzanotte. Cambiamo la giornata - per convenzione, a dire il vero, visto che un abitante di Tonga vede già il tramonto e per un Hawaiano è appena cominciata la serata - e cambia il nostro atteggiamento.
Sarà che non si riesce a dormire, sarà la serata strana - eppure convenzionale - ma la percezione cambia.
“Notte fonda” è u periodo strano. E’ il periodo in cui ti tornano alla mente gli Stray Cats, just when a perfect domestic cat is purring on your leg, grazie al suggerimento di un amico.
Con cui, giusto per la cronaca, non parli da quasi un anno, ma che ti è sempre caro da morire, non fosse altro perché è uno di quei pochi ancoraggi che ti legano alla realtà, mentre un forte vento soffia e tenta di strappare gli ancoraggi e portarti in un mondo - diverso forse - pericoloso come degli scogli sottovento.
Non ci parlo da quasi un anno e mi dà un suggerimento. Potenza dei social network. Bé, 2008, sarai stato anche un anno di merda, ma ci hai portato qualcosa che potrebbe - e nota bene, dico solo potrebbe - essere un grande cambiamento della nostra misera, sbattuta e stanca società. Niente di particolare sia bene inteso, giusto una misera sostituzione dell’unica cosa che ci rende veramente umani, il senso della socialità, della tribù che è l’unica cosa che veramente ci importa, quella cerchia di persone, di conoscenti, di amici - ma quant’è difficile da definire questa parola? - che ci definisce molto meglio di una legione di psicoterapeuti assetati dei nostri ricordi e delle nostre paure.
Non siamo ciò che siamo, questa è una balla fantasmagorica tirata fuori da chi ci vuole far passare per individualisti ad ogni costo, per schiavi, servi del nostro autocompiacimento e della nostra voglia di essere qualcuno prima ancora di essere parte di un gruppo. Invece siamo il nostro gruppo, le nostre conoscenze. Eugenio ha percezioni di me diverse da quelle di Francesco, e a sua volta diverse da quelle di Fulvia. Davide non ne parliamo. Maura è una storia a sé.
Eppure noi siamo, né più né meno, quello che loro percepiscono, una serie di armoniche tutte diseguali eppure complementari, che concorrono impietosamente a formare quel suono che ci definisce da cima a fondo. Solo il battito fondamentale, le battute per minuto che ci scandiscono, sono il nostro contributo. Il resto, il freddo e confusionario resto di noi stessi, non è altro che la somma di queste miriadi di impressioni diverse. Collega, amico, capo, sottoposto. Amore. Figlio. Noi siamo quella somma, quella combinazione, ognuno un tono a sé impercettibile e continuo che ci delinea lentamente, armonica dopo armonica.
A volte un suono bellissimo, a volte terribile. Quasi sempre interessante.
A meno che - e il vostro umilissimo autore si scusa per lanciarsi in una metafora così banale - le armoniche che compongono e modulano questo suono non siano così rade, così poche e così accordate nella loro esilità da fondersi in un suono primario, in un onda quadro, di battito prevedibile e definito, che dopo poco scade in pulsazione, degrada in fastidio, per raggiungere in pochi istanti l'umiliante condizione di rumore di fondo, un piccolo suono che non ci raggiunge se non per le sue occasionali, disturbanti discordanze.
Per come la penso io è un destino di poco peggiore della morte.
Forse è per questo che amiamo tanto i social network.
Sono un surrogato - certo, niente di reale - ma ci permettono - almeno nella nostra mente malata e poco attenta - di illuderci di vivere ancora nella piacevole nebbia famigliare del giro di amicizie, quella cosa misteriosa che il meraviglioso mondo denominato Italia 2008 sta facendo di tutto per strapparci via. A malapena parli con quelli con cui lavori, se sei fortunato ne vale la pena, se la sfiga ti ha eletto a tuo compagno preferito sono delle personalità con le quali non vuoi avere niente a che fare. Torni a casa imbacuccato in una cassetta di lamiera assetata di benzina che non fa altro che isolarti da tutto quello che sta intorno, freddo, pioggia o contatto umano che sia. Torni a casa e non vuoi sentire nessuno perché costa fatica, ti schianti davanti alla televisione, bevi, mangi, ti fai una canna, mangi di più.
E stai con te stesso, invariabilmente, mentre il tuo suono perde di ricchezza, le armoniche si sfilano una dopo l’altra, il ritmo si fa costante e continuo, senza accenti né sbavare di una virgola.
Il tuo suono si fa sempre più monotono e noioso. Non interessante.
Provare ad inserire un battito nuovo diventa sempre più difficile. Di più, inutile.
Una sigaretta dopo l'altra finisci per convincerti che quel suono sei veramente tu... E hai voglia di qualcosa di più. Si cambia il ritmo, si inserisce una variazione. Chorus, verse, chorus, verse, middle eight, chorus, verse. La pulsazione comincia ad acquistare vita. I contatti si moltiplicano. Ridi con uno, scherzi con l'altro. Usi qualcuno per far riaffiorare quei ricordi lontani che un tempo erano te. Solo che non sono pericolosi scogli affilati quelli che affiorano, ma dolci spiagge che possono ospitare, sia pure per qualche momento, la tua barca annoiata.
Sto andando bene? E' un buono stile? Parlo, Comunico, Racconto?
Abbiamo oscillatori e campioni al posto dei buoni vecchi basso, chitarra e batteria, è il 2008 - quasi 2009 - e dobbiamo affidarci a queste - stramaledette! - reti di comunicazione per poter ricostruire una parvenza di rete sociale. Troppo complicato, troppo doloroso rientrare nella realtà.
A volte crei, senza accorgertene, nuovi legami. Il collega di lavoro che comincia a scambiare commenti con l'amica che non vedi da dieci anni. La causa, inventata per una semplice associazione di idee, che vede assieme l'amico fraterno e il ragazzo che lavora per te, senza distinzioni. E' figo quando succede, sembra come una bevuta tra amici del periodo d'oro. Con la gente che si presentava e che dopo dieci minuti - e, a dire il vero, anche dopo tre o quattro birre - era un amico fraterno. Un pallido surrogato, certo, ma a modo suo funziona.
Dio, certe volte vorrei che qualcuno alla Cisco desse di matto e mandasse a puttane tutta questa roba, tutta quest'infrastruttura che ci dà una minima, minima possibilità di non impazzire tutti o di non tramutarci tutti in automi senza senso.
Ma devo stare attento ad esprimere queste aspettative. Come dice un antico proverbio arabo:
Attento a pronunciare i tuoi desideri ad alta voce nel deserto. Allah potrebbe sentirli. Ed esaudirli.