sabato 29 agosto 2009

Vent'anni dopo

Ecco, è strano mettersi a parlare di quel periodo, come se non fossero passati vent’anni, cercando di ricordare, di capire cosa pensavamo allora, quand’eravamo semplicemente dei banali diciottenni.
Artifici letterari, a ben guardare, nel disagio che ci portavamo dietro. Un disagio che era a sua volta il risultato di un artificio letterario.
Beninteso, eravamo ribelli. Tutti i ventenni sono ribelli, tranne misteriosamente quelli di oggi, e noi non facevamo eccezione. Però a dire il vero eravamo un po’ scarsi di motivi di ribellione. Non che non ne avessimo (c’erano Craxi, Andreotti e Forlani, tanto per dirne una), ma alla fine non facevamo una vita troppo schifosa, avevamo delle prospettive davanti e ancora nessuno sapeva cosa diavolo fosse un call center.
Il problema è che ci eravamo nutriti di una dieta continua di guerra del Vietnam, John Lennon, Anarchy in U.K. e roba del genere, roba forte che faceva veramente sballare il cervello. Non potevamo far a meno di atteggiarci come una via di mezzo tra punk londinesi del ’77 e fricchettoni di Woodstock. Sapevamo benissimo che le due categorie, in fondo, si odiavano profondamente. Avevamo una cultura enciclopedica su quei fatti, giungendo a ricordare i cambi di batterista con precisione maggiore di quanto un ragazzino di adesso possa citare le formazioni della Roma 2001-2002, ma nonostante questo coltivavamo una visione eroica ed idealistica della continuità spirituale tra le ribellioni che ci portava a mettere sullo stesso palco Gene Vincent, Syd Barrett e Johnny Rotten senza problemi.
A ripensarci sarebbe stata una scena divertente, si sarebbero letteralmente scannati come lupi affamati messi nello stesso recinto.
Però avevamo ragione, era la stessa cosa.
Noi, mancando in fondo un serio motivo di ribellione contro cui scagliarsi come un treno contro un binario morto, ci buttammo contro i Duran Duran. E gli Spandau Ballet. E tutta quella merda che non faceva altro che passare in continuazione in televisione e nelle radio commerciali, riempiendo timpani e cervelli dei nostri poveri coetanei di stupidaggini di basso profilo. Niente giubottini colorati, pelle nera e stivali, atteggiamento da rocker. E guai a parlare di discoteche o a giudicare positivamente un pezzo di Phil Collins, si rischiava la radiazione dall’albo.
Avevamo ragione anche in questo, era e rimane cacca secca di cammello. Anche se adesso va di moda ricordarla con nostalgia e parlarne bene. Merda secca, altro che musica.
Molti imbracciarono le chitarre, i bassi e si armarono di bacchette e sulla base di questi presupposti iniziarono a fare musica. E che musica... Con degli ispiratori del genere non poteva che venirne fuori roba esplosiva, originale, innovativa, eccitante, termonucleare. A Brindisi, una cittadina di centomila abitanti scarsi, c’erano almeno otto gruppi diversi che suonavano, facevano concerti, componevano canzoni, si ubriacavano assieme, parlavano - molto - e agivano - molto, ma non abbastanza - per portare fuori questa loro arte nascosta, fermamente convinti di produrre ottima musica, un’ottima filosofia di vita, vivendo gli anni migliori della propria vita come un’unica, corale, appassionante e intrigante opera d’arte.
Mi duole ripetermi, ma avevamo ragione anche in questo. Nello stesso momento, in America, succedeva esattamente la stessa cosa. Dalle piccole città si alzava un suono di chitarre distorte che con cupa allegria si dedicava a sfanculare con rabbia l’establishment musicale, sociale, economico che era stato costruito con tanto impegno dalle generazioni precedenti.
Cazzo, loro però hanno avuto successo.
Ora tutti sanno chi sono i REM e i Nirvana, ma Blackboard Jungle e Birdy Hop li conosciamo in pochi, eppure facevano le stesse cose nello stesso periodo. Anche se, a dirla tutta, la differenza alla fine la fece venire da Seattle, fare duecento concerti all’anno in posti dove un produttore decente prendeva la macchina e in mezz’ora era lì. Molto, molto più facile che venire da Brindisi, fare trenta concerti all’anno in posti dove ti ritrovavi di fronte sempre le stesse persone, nessun produttore e dove a mala pena ti pagavano se non bevevi troppe birre.
Però la musica c’era, cazzo se c’era.
Sono passati vent’anni, la maggior parte di noi non ha ancora messo la testa a posto, a testimonianza di quanto fossimo... No, mi correggo, siamo convinti di quello che pensavamo all’epoca. La musica è ancora grandiosa, riascoltandola non è invecchiata assolutamente e non era per niente roba da dilettanti allo sbaraglio.
Ma soprattutto rimane quell’opera d’arte che è stata la nostra vita in quel periodo, immensa, torreggiante e splendida come una cattedrale gotica, il miglior capolavoro che potessimo produrre.
Avevamo ragione, l’ho detto, e anche se nessuno lo sa, siamo stati capaci di mettere assieme degli anni magnifici.
A proposito, non abbiamo ancora finito.